Per CFI è tempo di un coordinamento operativo che coinvolga tutti gli stakeholder di settore - dall’esecutivo ai sindacati, da CFI e Confindustria con i suoi DIH ai Competence Center. Obiettivo: mettere in pista un “Piano Marshall per la manifattura” per completare la trasformazione digitale delle imprese. E soprattutto per giocare la partita degli European Digital Innovation Hub (EDIH) in cui l’Italia può riaffermare la sua eccellenza attraverso uno sforzo di aggregazione che colleghi la dimensione territoriale regionale all’Europa
Come può la tecnologia aiutare le aziende a rendere più competitive le proprie fabbriche in vista della ripresa nel new normal? Per il CFI la risposta è: con un “Piano Marshall per la manifattura”. L’obiettivo è quello di approfittare del momento di rallentamento generato da Covid-19 per completare la trasformazione digitale delle imprese, sia dal punto di vista degli investimenti necessari per la piena interconnessione di macchine e sistemi nell’ambito della fabbrica, che da quello dell’integrazione di filiera. E uscire da questo periodo più forti e competitivi.
Lo Stato dovrebbe intervenire rafforzando i benefici fiscali già in atto destinando le nuove risorse all’adozione di tecnologie e strumenti che siano in grado di agire sulla mitigazione degli impatti della crisi e di agevolare la ripresa attraverso investimenti in grado di supportare efficacia ed efficienza del sistema manifatturiero nazionale.
Questo modello dovrebbe essere completamente condiviso ed implementato in maniera integrata in Europa: confidando nel comune interesse di Francia e Germania, che insieme all’Italia pesano per circa l’80% della manifattura europea, si potrebbero definire congiuntamente le priorità per allocare al meglio le risorse congiuntamente messe a disposizione.
Una proposta nata in piena emergenza
Osservando quanto è accaduto nell’arco temporale del lockdown la domanda che dobbiamo porci è: quali sono le tecnologie che hanno svelato nel momento della crisi la loro capacità di contrasto e resilienza? Di sicuro quelle che hanno consentito il telelavoro, cioè l’attività svolta da remoto (anche a domicilio) grazie all’assistenza di strumenti informatici e telematici. L’attuazione di programmi di telelavoro è facilitata se l’azienda già adotta il Cloud computing, per cui i dati sono gestiti su server remoti cui i dipendenti si collegano.
Il telelavoro oggi diventa una realtà per tutte le attività di supporto alla produzione e deve essere una opportunità per liberare spazi nella fabbrica a favore di una maggiore integrazione dell’operatore di fabbrica nel sistema produttivo, valorizzando la dimensione fisica del lavoro “di fabbrica” che non può essere sostituita. Infatti, anche le aziende manifatturiere svolgono parecchi processi accessori che possono essere garantiti da remoto, creando le condizioni di maggiore sicurezza per le risorse che continuano a lavorare in fabbrica, garantendone la continuità operativa.
Inoltre, le piattaforme digitali hanno dimostrato le incredibili opportunità collegate alla formazione a distanza. Favorire il reskilling del personale, soprattutto per formare quelle competenze necessarie destinate ad essere applicate su nuove tecnologie. Questo può accadere anche in situazioni di relativo vuoto lavoro. Un esempio, Infosys, una delle più grandi compagnie di servizi ingegneristici e di sviluppo SW al mondo, presso il campus di Bangalore, anche quando l’assorbimento di risorse nei programmi operativi non ha superato il 30% dei circa 30mila dipendenti, ha fatto sì che il restante 70% fosse impegnato in formazione permanente. È un caso estremo, ovviamente non del tutto assimilabile alla manifattura italiana: ma è senz’altro un esempio di come il tempo non vada mai sprecato e come la tecnologia può supportare al meglio tale approccio.
Il “Piano Marshall per la manifattura”
Un “Piano Marshall per la manifattura”, di durata triennale o quinquennale, sarebbe capace di dare impulso alla trasformazione digitale delle aziende con un approccio di filiera, di modo che, quando l’epidemia sarà un ricordo, le nostre imprese possano essere pronte per competere con rinnovata energia nei contesti internazionali, e le nostre filiere possano rivelarsi più efficienti, veloci e resilienti. Per capire la proposta del CFI bisogna fare un passo indietro.
La digital transformation delle imprese italiane si è di fatto fermata a metà strada. C’è di mezzo il continuo cambiamento dei piani nazionali, da “Industria 4.0” a “Impresa 4.0” e a “Transizione 4.0”, o la maggiore attenzione alla misura (passaggio dall’iperammortamento al credito di imposta) rispetto allo scopo, o ancora la programmazione di corto respiro. Comunque sia, la storia del fenomeno in chiave italica si può riassumere in questi termini: una prima fase – concentrata soprattutto nel 2017 – a supporto dell’acquisto di macchine intelligenti predisposte per l’interconnessione, che in molti casi non si è completamente finalizzata.
Nella manifattura, non si è indirizzata completamente la logica delle piattaforme a supporto dell’integrazione dei mondi dell’OT (Operation Technology) e dell’IT (Information Technology), perdendo di vista l’essenza della trasformazione digitale: ossia che la rete industriale (quella grazie alla quale i componenti di un processo produttivo si scambiano informazioni) e quella informatica (che serve a memorizzare, recuperare, trasmettere e manipolare dati) comunichino tra di loro.
Tale gap si è ulteriormente ampliato all’esterno delle aziende, visto che poche filiere sono integrate. Eppure in molte di esse la marginalità si gioca sull’efficienza operativa delle imprese che le compongono. Diventa cogente, dunque, l’aggiornamento tecnologico di tutti gli attori coinvolti: è necessario, ad esempio, sincronizzare il meccanismo della fornitura, con ordini automaticamente allineati a fronte dei processi di ripianificazione.
Ciò significa che, ai fini di massimizzare i benefici per la filiera, tutto il mondo delle PMI deve tenere la stessa traiettoria e velocità evolutiva delle aziende più grandi e avanzate. Il che, per la verità, è tutto tranne che semplice. Per CFI, si deve approfittare del momento per chiudere il cerchio. Altrimenti, ripartire sarà molto più difficile per noi ed il gap di competitività indotto dalla perdita di produttività tenderà ad ampliarsi ulteriormente.
La centralità del Piano Industria 4.0 e del PNR 2021-2027
Il Piano Industria 4.0 è dunque un asset strategico per supportare la ripresa del Paese che il Governo non ha ancora sfruttato: nel recente Decreto Rilancio che ha indirizzato misure per circa 55 miliardi di euro non c’è traccia del pacchetto di misure volte a stimolare gli investimenti in beni strumentali, le attività di R&S ed innovazione e la formazione 4.0 per un valore di oltre 14 miliardi di euro nel quinquennio 2022-2027 alla cui definizione da parte del MISE aveva contribuito anche il CFI.
Non si può quindi non sottolineare la necessità di riaffermare una visione strategica supportata da un massiccio piano di investimenti, strettamente collegata agli obiettivi già indirizzati dal Governo di immettere liquidità nel sistema industriale e favorire la riapertura ed il riavvio delle attività produttive, per generare un processo di sviluppo nel new normal in grado di far fronte all’ulteriore crescita dell’indebitamento.
Il potenziamento del Piano Industria 4.0 va strettamente collegato la Piano Nazionale della Ricerca (PNR 2021-27), la cui elaborazione è stata recentemente riavviata dal MUR attraverso un processo accelerato che deve portare entro giugno a definire una prima bozza, questa si deve saldare con le traiettorie già tracciate da Horizon Europe, attraverso il lavoro di tavoli tecnici tra i quali quello dell’Innovazione nella Manifattura presieduto da Sergio Cavalieri, elemento di punta del nostro associato Università di Bergamo.
Per CFI, il modello del Tavolo va discusso e condiviso con l’Europa. Se si riuscisse a dar vita ad un “Piano Marshall” a livello UE, con la condivisione delle filiere strategiche e dei campioni da preservare, delle azioni sul piano dello sviluppo tecnologico e delle competenze da mettere in campo e di un piano di finanziamenti alimentato anche con risorse prevenienti da Strasburgo e specificamente dedicati agli investimenti produttivi, le fabbriche europee uscirebbero da questa crisi più forti, più competitive con i loro “avversari” naturali, gli Usa e la Cina.
La situazione della manifattura
Con la diffusione del virus e il crescendo di misure restrittive dei governi alla circolazione, due fenomeni hanno colpito la manifattura italiana. Anzitutto, pesa la difficoltà dell’approvvigionamento, dal momento che le molte aziende di settore sono inserite in filiere internazionali che hanno a che fare con la componentistica cinese; e la Cina fino a poco tempo fa era bloccata. Ora pare che il gigante orientale – primo Paese al mondo, nella manifattura, con una quota di valore aggiunto del 29,5% – si sia rimesso in moto. In questo Paese si è registrato a febbraio il dato peggiore di sempre per l’indice PMI (Purchasing Managers Index, è elaborato da Markit Group e riflette la capacità di acquisizione di beni e servizi): 35,7, contro il 50 di gennaio e soprattutto contro il 46 atteso dagli analisti; ma è probabile che i dati di marzo saranno più confortanti. C’è comunque da attendersi un forte calo delle esportazioni italiane, in un contesto in cui i trasporti internazionali rallentano e la domanda mondiale è destinata a contrarsi.
Ma anche le filiere domestiche risentono di più di un problema. Con la realizzazione di zone rosse e la parcellizzazione dei dipendenti attivi nello shop-floor, molte piccole industrie faticano a trovare una soluzione per continuare ad essere operative. Mentre le grandi aziende si sono attrezzate con lo smart working, che ha consentito loro di destinare parte delle attività non di fabbrica in situazioni protette, limitando i danni, le PMI si sono spesso fatte trovare impreparate, sia in termini di mezzi che di metodologie.
In queste circostanze, il tema critico è quello di garantire la continuità operativa e rispettare il time-to-market. Attualmente, il 60,1% delle imprese manifatturiere consultate dal Centro Studi di Confindustria (in un’indagine ripresa da Il Sole 24 Ore) afferma di risentire delle conseguenze negative del virus. Nell’ordine, i comparti del manufacturing più colpiti sono il tabacco, l’abbigliamento, l’elettronica, la chimica, la farmaceutica, l’automotive, l’arredo, il tessile, le bevande e i macchinari. Sempre secondo l’analisi di CSC, il 27% delle aziende ha già subito una contrazione delle revenue.
Il piano di rilancio di Confindustria e il Piano Marshall per la manifattura: convergenze in favore della trasformazione digitale
Il piano di rilancio stilato da Confindustria delinea un investimento di massa in infrastrutture materiali, sociali e immateriali all’avanguardia. L’idea è che per far fronte all’arretramento della domanda privata, lo Stato, con risorse congrue, favorisca la crescita della domanda pubblica. Una sorta di compensazione, con un occhio alle teorie macroeconomiche di Keynes. È un piano straordinario triennale, che parte dall’avvio di tutti i cantieri e punta a realizzare tutte le opere già programmate, introducendo misure di sblocco dei procedimenti. Per far ciò occorrerebbe garantire liquidità alle imprese, anzitutto potenziando le attività del Fondo di garanzia per le PMI, ma anche dilazionando il pagamento dei debiti tributari e con altre misure. È previsto un progetto di semplificazioni, per liberare il potenziale di investimento necessario alla transizione energetica, alla decarbonizzazione e all’economia circolare.
Si tratta, come si vede, di misure generali per l’economia; ma il piano di Confindustria potrebbe rivelarsi allineato con il “Piano Marshall per la manifattura” nella misura in cui auspica un incremento delle aliquote dei crediti di imposta già previsti per gli investimenti delle imprese, a partire da quelli stabiliti nel Piano Transizione 4.0. Si potrebbe, cioè, partire da questa idea per definire le modalità di sostegno al finanziamento della seconda fase della trasformazione digitale delle imprese, quella che, come si è detto, riguarda la convergenza tra IT e OT e l’integrazione delle filiere.
Inoltre le piattaforme digitali hanno dimostrato le incredibili opportunità collegate alla formazione a distanza. Favorire il reskilling del personale, soprattutto per formare quelle competenze necessarie destinate ad essere applicate su nuove tecnologie. Questo può accadere anche in situazioni di relativo vuoto lavoro. Un esempio, Infosys, una delle più grandi compagnie di servizi ingegneristici e di sviluppo SW al mondo, presso il campus di Bangalore, anche quando l’assorbimento di risorse nei programmi operativi non superava il 30% dei circa 30mila dipendenti, ha fatto sì che il restante 70% fosse impegnato in formazione permanente. È un caso estremo, ovviamente non del tutto assimilabile alla manifattura italiana: ma è senz’altro un esempio di come il tempo non vada mai sprecato e come la tecnologia può supportare al meglio tale approccio.
Il “Piano Marshall per la manifattura”
Un “Piano Marshall per la manifattura”, di durata triennale o quinquennale, per dare impulso alla trasformazione digitale delle aziende con un approccio di filiera, di modo che, quando l’epidemia sarà un ricordo, le nostre imprese possano essere pronte per competere con rinnovata energia nei contesti internazionali, e le nostre filiere possano rivelarsi più efficienti, veloci e resilienti. Per capire la proposta del CFI bisogna fare un passo indietro.
La digital transformation delle imprese italiane si è di fatto fermata a metà strada. C’è di mezzo il continuo cambiamento dei piani nazionali, da “Industria 4.0” a “Impresa 4.0” e a “Transizione 4.0”, o la maggiore attenzione alla misura (passaggio dall’iperammortamento al credito di imposta) rispetto allo scopo, o ancora la programmazione di corto respiro. Comunque sia, la storia del fenomeno in chiave italica si può riassumere in questi termini: una prima fase – concentrata soprattutto nel 2017 – a supporto dell’acquisto di macchine intelligenti predisposte per l’interconnessione, che in molti casi non si è completamente finalizzata.
Nella manifattura, non si è indirizzata completamente la logica delle piattaforme a supporto dell’integrazione dei mondi dell’OT (Operation Technology) e dell’IT (Information Technology), perdendo di vista l’essenza della trasformazione digitale: ossia che la rete industriale (quella grazie alla quale i componenti di un processo produttivo si scambiano informazioni) e quella informatica (che serve a memorizzare, recuperare, trasmettere e manipolare dati) comunichino tra di loro. Tale gap si è ulteriormente ampliato all’esterno delle aziende, visto che poche filiere sono integrate. Eppure in molte di esse la marginalità si gioca sull’efficienza operativa delle imprese che le compongono. Diventa cogente, dunque, l’aggiornamento tecnologico di tutti gli attori coinvolti: è necessario, ad esempio, sincronizzare il meccanismo della fornitura, con ordini automaticamente allineati a fronti dei processi di ripianificazione.
Ciò significa che, ai fini di massimizzare i benefici per la filiera, tutto il mondo delle PMI deve tenere la stessa traiettoria e velocità evolutiva delle aziende più grandi e avanzate. Il che, per la verità, è tutto tranne che semplice. Per CFI, si deve approfittare del momento per chiudere il cerchio. Altrimenti, ripartire sarà molto più difficile per noi ed il gap di competitività indotto dalla perdita di produttività tenderà ad ampliarsi ulteriormente.
La centralità del Piano Industria 4.0
Il Piano Industria 4.0 è dunque un asset strategico per supportare la ripresa del Paese che il Governo non ha ancora sfruttato: nel recente Decreto Rilancio che ha indirizzato misure per circa 55 miliardi di euro non c’è traccia del pacchetto di misure volte a stimolare gli investimenti in beni strumentali, le attività di R&S ed innovazione e la formazione 4.0 per un valore di oltre 14 miliardi di euro nel quinquennio 2022-2027 alla cui definizione da parte del MISE aveva contribuito anche il CFI.
Non si può quindi non sottolineare la necessità di riaffermare una visione strategica supportata da un massiccio piano di investimenti, strettamente collegata agli obiettivi già indirizzati dal Governo di immettere liquidità nel sistema industriale e favorire la riapertura ed il riavvio delle attività produttive, per generare un processo di sviluppo nel new normal in grado di far fronte all’ulteriore crescita dell’indebitamento.
Il potenziamento del Piano Industria 4.0 va strettamente collegato la Piano Nazionale della Ricerca (PNR 2021-27), la cui elaborazione è stata recentemente riavviata dal MUR attraverso un processo accelerato che deve portare entro giugno a definire una prima bozza, questa si deve saldare con le traiettorie già tracciate da Horizon Europe, attraverso il lavoro di tavoli tecnici tra i quali quello dell’Innovazione nella Manifattura presieduto da Sergio Cavalieri, elemento di punta del nostro associato Università di Bergamo.
Per CFI, il modello del Tavolo va discusso e condiviso con l’Europa. Germania, Francia e Italia, Paesi tutti e tre colpiti dal virus, rappresentano l’80% della manifattura continentale. Se si riuscisse a dar vita ad un “Piano Marshall” a livello UE, con la condivisione delle filiere strategiche e dei campioni da preservare, delle azioni sul piano dello sviluppo tecnologico e delle competenze da mettere in campo e di un piano di finanziamenti alimentato anche con risorse prevenienti da Strasburgo e specificamente dedicati agli investimenti produttivi, le fabbriche europee uscirebbero da questa crisi più forti, più competitive con i loro “avversari” naturali, gli Usa e la Cina.
Le ragioni alla base della proposta del Cluster
La situazione della manifattura
Con la diffusione del virus e il crescendo di misure restrittive dei governi alla circolazione, due fenomeni hanno colpito la manifattura italiana. Anzitutto, pesa la difficoltà dell’approvvigionamento, dal momento che le molte aziende di settore sono inserite in filiere internazionali che hanno a che fare con la componentistica cinese; e la Cina fino a poco tempo fa era bloccata. Ora pare che il gigante orientale – primo Paese al mondo, nella manifattura, con una quota di valore aggiunto del 29,5% – si sia rimesso in moto. In questo Paese si è registrato a febbraio il dato peggiore di sempre per l’indice PMI (Purchasing Managers Index, è elaborato da Markit Group e riflette la capacità di acquisizione di beni e servizi): 35,7, contro il 50 di gennaio e soprattutto contro il 46 atteso dagli analisti; ma è probabile che i dati di marzo saranno più confortanti.C’è comunque da attendersi un forte calo delle esportazioni italiane, in un contesto in cui i trasporti internazionali rallentano e la domanda mondiale è destinata a contrarsi.
Ma anche le filiere domestiche risentono di più di un problema. Con la realizzazione di zone rosse e la parcellizzazione dei dipendenti attivi nello shop-floor, molte piccole industrie faticano a trovare una soluzione per continuare ad essere operative. Mentre le grandi aziende si sono attrezzate con lo smart working, che ha consentito loro di destinare parte delle attività non di fabbrica in situazioni protette, limitando i danni, le PMI si sono spesso fatte trovare impreparate, sia in termini di mezzi che di metodologie.
In queste circostanze, il tema critico è quello di garantire la continuità operativa e rispettare il time-to-market. Attualmente, il 60,1% delle imprese manifatturiere consultate dal Centro Studi di Confindustria, (in un’indagine ripresa da Il Sole 24 Ore) afferma di risentire delle conseguenze negative del virus. Nell’ordine, i comparti del manufacturing più colpiti sono il tabacco, l’abbigliamento, l’elettronica, la chimica, la farmaceutica, l’automotive, l’arredo, il tessile, le bevande e i macchinari. Sempre secondo l’analisi di CSC, il 27% delle aziende ha già subito una contrazione delle revenue.
Il piano di rilancio di Confindustria e il Piano Marshall per la manifattura convergenze in favore della trasformazione digitale
Il piano di rilancio stilato da Confindustria delinea un investimento di massa in infrastrutture materiali, sociali e immateriali all’avanguardia. L’idea è che per far fronte all’arretramento della domanda privata, lo Stato, con risorse congrue, favorisca la crescita della domanda pubblica. Una sorta di compensazione, con un occhio alle teorie macroeconomiche di Keynes. È un piano straordinario triennale, che parte dall’avvio di tutti i cantieri e punta a realizzare tutte le opere già programmate, introducendo misure di sblocco dei procedimenti. Per far ciò occorrerebbe garantire liquidità alle imprese, anzitutto potenziando le attività del Fondo di garanzia per le PMI, ma anche dilazionando il pagamento dei debiti tributari e con altre misure. È previsto un progetto di semplificazioni, per liberare il potenziale di investimento necessario alla transizione energetica, alla decarbonizzazione e all’economia circolare. Si tratta, come si vede, di misure generali per l’economia; ma il piano di Confindustria potrebbe rivelarsi allineato con il “Piano Marshall per la manifattura” nella misura in cui auspica un incremento delle aliquote dei crediti di imposta già previsti per gli investimenti delle imprese, a partire da quelli stabiliti nel Piano Transizione 4.0. Si potrebbe, cioè, partire da questa idea per definire le modalità di sostegno al finanziamento della seconda fase della trasformazione digitale delle imprese, quella che, come si è detto, riguarda la convergenza tra IT e OT e l’integrazione delle filiere.